Iria rident

Iria ridet (1906), pastelli colorati e graffiture su cartone, 55×38 cm, collezione privata

Iria rident

La ricca sequenza di disegni permette di ripercorrere l’iter che portò Pellizza a mettere a punto l’immagine dell’amazzone come illustrazione per la copertina del sesto numero di “Iria ridet”, una rivista fondata da Ernesto Majocchì, versatile protagonista del giornalismo vogherese tra Otto e Novecento (su cui cfr. A. Scotti, L’Uomo che ride di Ernesto Malocchi: grafica, progresso tecnico e cultura socialista nel giornalismo vogherese di fine Ottocento, in “Annali di storia pavese”, Pavia, nn. 6-7, dicembre 1981). I disegni furono elaborati durante il soggiorno romano e denunciano una spigliatezza più accentuata di quanto fosse consueto a Pellizza forse proprio per il vivificante contatto con l’ambiente cittadino. Le prime prove ruotano attorno al tema della donna con la maschera, simbolo dell’ambivalenza e dell’ironia, secondo una tradizione che si riferiva all’antico teatro, ma rapportato all’attualità con la scelta di una figura femminile chiaramente ispirata dal presente. Subito dopo compare però la coppia amazzone-cavallo, dapprima in forme più descrittive, sebbene marcate da forti contorni, e poi in forme più sintetiche ed essenziali. Il motivo può forse essere stato suggerito dalla frequentazione di maneggi da parte del pittore, che prese proprio allora lezioni di equitazione; esso si tradusse comunque nell’immagine definitiva della domatrice che Pellizza individuava come adeguata a incarnare gli ideali politico-sociali di orientamento democratico di cui Majocchi era paladino nell’ambito del partito socialista vogherese.
La spiegazione del soggetto che Pellizza fornì all’amico non lascia dubbi: «La domatrice non è una gaudente, ma un demonio dall’espressione macabro-satirico-felina – essa viene dal popolo, che le ispira il pensiero tagliente nutrito di privazioni. Ma nel fondo del suo animo è una bontà mal celata dietro il sorriso beffardo. È il nuovo spirito critico demolitore, desideroso di costruire sulle macerie fumanti un edificio migliore». Queste componenti satirico-feline, alimentate da un acuto criticismo sono tradotte dal pittore in una composizione dal taglio particolarmente ardito, con un semplice accenno di paesaggio e con la groppa del cavallo posta ad arco in primo piano; su questo si appoggia la figura, dal modellato sintetico delle parti trattate con vigore geometrico e con netti contrasti di luce accentuati da un linearismo marcato dei contorni: dal sorriso beffardo agli occhi felini, al cappello che conclude con la sua forma turgida la composizione.
Il tratto del pastello è sgranato sotto l’incidenza della luce su tutto il corpo (la graffitura sottile accresce la sensazione di vibrante superficie) e il contorno è netto: l’immagine sembra imparentarsi con la grafica francese (in un lungo percorso da Seurat a Steinlen) che in Italia era nota anche attraverso l’illustrazione di riviste legate all’ideologia socialista, come «II Socialismo» edita appunto a Roma dal 1903. Proprio queste scelte linguistiche dovettero però sconcertare un poco il Majocchi che conosceva il livello recettivo dei lettori del giornale vogherese. Per questo Pellizza tornò sull’argomento con una nuova lettera spiegando meglio il soggetto all’amico ed accentuandone il simbolismo di matrice «sociale»: «L’amazzone ha finalmente domato l’animale e se lo sente vicino ubbidiente e ne gode, e sorride: che egli riprenda i suoi istinti men buoni ed ella monterà in sella nuovamente e continuerà l’opera sua. Essa è figlia del popolo e del popolo ha la bontà e la generosità, l’opera sua è continua, incessante, suo supremo desiderio è di poter coronare l’opera sua con un sorriso. Il tuo lettore risentirà facilmente attraverso le forme del disegno il concetto che lo informa…” (Volpedo Studio Pellizza, Minutari 1906, integralmente citato in A. Scotti, Giuseppe Pellizza da Volpedo. Il Quarto Stato, Milano 1976, pp. 214-216).
Il disegno di Pellizza pose problemi di riproduzione alle officine del giornale: abituali a stampare a colori quasi piatti ed in variazioni tonali di un unico elemento, si trovavano impreparati alle sgranature del pastello ed alle complesse soluzioni previste da Pellizza, ed inoltre Majocchi, che incominciava a soffrire per la malattia che lo condusse alla fine nell’anno successivo, era meno battagliero. Queste cause accanto allo sconcerto indubbiamente suscitato dalla proposta pellizziana impedirono che la copertina disegnata dal nostro artista uscisse sul numero 6 della rivista che fu anche l’ultimo. L’esemplare della raccolta conservata presso la Biblioteca Civica di Vogherà è mancante proprio del primo foglio, ma il fascicolo completo presso la Biblioteca Nazionale di Firenze (pubblicato da V.G. Bono, Vita di provincia tra cronaca e arte, Voghera 1983, fig. a p. 21) ha una serie di vedute della città invece della domatrice di Pellizza. Lo sconcerto di fronte all’immagine durò comunque a lungo, poiché il grande pastello non venne mai esposto in nessuna delle varie mostre dedicate all’artista, neppure alle rassegne dell’alessandrino dedicate alla grafica, fino alla decisione di presentarlo nel 1970 alla mostra del Divisionismo presso la Permanente di Milano.

Aurora Scotti, Pellizza da Volpedo. Catalogo generale, Milano 1986, scheda 1283